Riassunto: In un momento di riflessione e di apertura verso i temi culturali di ampio respiro internazionale, in cui i processi formativi delle persone nella famiglia, nella scuola e nella società sono fondamentali per lo sviluppo etico, civile ed economico delle società contemporanee, è necessario riproporre alcune ulteriori riflessioni sul tema dell’identità della pedagogia per dimostrare come questa problematica possa essere ancora centrale per rilanciare la ricerca pedagogica nei territori più significativi della cultura contemporanea.
Parole chiave: identità della pedagogia, processi educativi, sviluppo etico e civile dell’individuo.
Negli ultimi decenni, specialmente nell’ambito della pedagogia italiana, si è sviluppato un interessante dibattito sulle tematiche epistemologiche dell’identità della pedagogia (AA.VV., 1991; Cambi, Colicchi, Muzi, Spadafora, 2001; Burza, 2008; Cambi, 2006; Granese, 2008; Colicchi, 2009). I motivi storici e teoretici di un tale dibattito non sono stati adeguatamente ricostruiti e approfonditi e, problema ancora più complesso, non si è svolta un’adeguata comparazione della specifica situazione italiana con i modelli culturali più significativi nella pedagogia contemporanea.
Probabilmente quello che con troppa disinvoltura è stato definito il “paradigma delle scienze dell’educazione”, intendendo con questo termine un modello culturale della pedagogia scientifica che nel secondo dopoguerra in Italia, in parte ispirato dal pensiero di John Dewey, ha cercato di generare un progetto culturale alternativo rispetto all’idealismo filosofico gentiliano, ma anche in contrapposizione al marxismo e alla cultura cattolica, ha determinato l’interesse epistemologico della pedagogia in Italia (Spadafora, 2006b; Pezzano, 2007).
In un momento di riflessione e di apertura verso i temi culturali di ampio respiro internazionale, in cui i processi formativi delle persone nella famiglia, nella scuola e nella società sono fondamentali per lo sviluppo etico, civile ed economico delle società contemporanee, è necessario riproporre alcune ulteriori riflessioni sul tema dell’identità della pedagogia per dimostrare come questa problematica possa essere ancora centrale per rilanciare la ricerca pedagogica nei territori più significativi della cultura contemporanea.
La definizione del concetto di pedagogia, intendendo con questo termine la teorizzazione sull’educazione, risulta un nodo aporetico significativo. La letteratura scientifica, molto diversificata nella tradizione del secolo scorso e nella contemporaneità, ha posto in evidenza la difficoltà di fondare e legittimare la pedagogia come sapere iuxta propria principia.
È troppo nota la particolarità del termine “pedagogia” (pais+ago), in quanto l’azione pratica del condurre il soggetto della formazione verso l’acquisizione progressiva di conoscenze e di valori che influenzano le modificazioni del comportamento nel tempo e nello spazio non definisce la complessità delle problematiche dell’azione educativa e non chiarisce adeguatamente il senso della pedagogia come sapere teorico-pratico. Se si vuole fissare un’origine temporale alla riflessione pedagogica si rischia di non trovare un adeguato punto di riferimento e di basarsi su convenzioni temporali e culturali poco giustificabili o, comunque, non sempre verificabili filologicamente per chiarire le origini del problema.
È evidente che i concetti di crescita, sviluppo, socializzazione, apprendimento, relazione interpersonale maestro-allievo, coltivazione, cura, sono ben presenti e approfonditi in numerosi nuclei fondanti delle trattazioni religiose e del pensiero filosofico e culturale in genere. La Bibbia e gli altri testi sacri che definiscono in vario modo il mistero delle origini dell’umanità, la definibilità della relazione vita-morte e il rapporto che le persone manifestano nei confronti del sacro presentano tematiche educative in vari luoghi delle loro trattazioni. Basti pensare alle categorie teologico-filosofi – che colpa, redenzione, ascesi illuminata, peccato, perdono, per rendersi conto di come lo sviluppo dell’attività delle persone, regolato e condizionato dalle varie fedi religiose e dalle conseguenti regole etiche, influenzi in modo educativo le varie condotte di vita.
Le questioni educative, inoltre, sono state analizzate in modo implicito ed esplicito in momenti centrali della filosofi a e della teoria della scienza occidentali. La maieutica socratica, il Critone e la Repubblica platonici, le Etiche e la Politica di Aristotele, la dottrina kantiana della soggettività trascendentale, il concetto hegeliano-marxiano di dialettica, la centralità della soggettività da Kierkegaard a Nietzsche, il problema dell’essere e della cura in Heidegger, la dottrina darwiniana dell’origine e dello sviluppo della specie esprimono solo alcuni momenti del pensiero occidentale, in cui si nota la presenza implicita di specifiche questioni educative. La domanda, quindi, che potrebbe sorgere è la seguente: perché la dimensione educativa risulta implicita nei contesti teologici, filosofici e, in genere, complessivi della vita umana?
È probabile che l’idea di Dewey, poco compresa e forse poco sviluppata dallo stesso filosofo, secondo cui l’educazione è un fenomeno naturale al pari del nutrirsi e del riprodursi dell’essere umano (Dewey, 1916), può essere considerata uno dei motivi che spiegherebbe questa presenza implicita ed esplicita della dimensione pedagogica nel pensiero filosofico e religioso. In questo senso le problematiche educative sono consustanziali alla vita umana e, quindi, il più delle volte implicite in tutte le dimensioni dell’agire umano (Blake, Standish, Smeyers, 2003; Bridges, Smeyers, 2007).
Inoltre la sempre più complessa specializzazione delle scienze umane e di quelle fisico-naturali all’interno delle grandi trasformazioni culturali, epistemologiche e tecnologiche del secolo scorso (dalla teoria della relatività e dei quanti alle posizioni del neopositivismo logico e alla diversificazione delle logiche, dalla riflessione epistemologica “fallibilista” popperiana alle diversificate epistemologie post-popperiane, dalla complessa stagione delle ermeneutiche fino al rapporto tra filosofi e analitiche e continentali, dalle varie correnti del pragmatismo e del neopragmatismo fino alle problematiche del post-moderno) ha sviluppato un processo di intensa riflessione sullo statuto epistemologico della pedagogia.
In questo scenario culturale la pedagogia, come riflessione che analizza i processi e i risultati del complesso fenomeno dell’educazione, ha evidenziato notevoli difficoltà nel definirsi come scienza autonoma o come sapere con caratteristiche specifiche. Se l’educazione, infatti, si è proposta come un fenomeno naturale che deve essere definito e controllato da un processo di teorizzazione e regolato da specifiche regole scientifiche, il nodo centrale del problema è comprendere la difficoltà di una simile applicazione del modello teorico al fenomeno specifico dell’educazione.
In precedenti studi ho sottolineato come il nodo teoretico della pedagogia sfuggiva alla classica distinzione di matrice diltheyana tra scienze della comprensione e della spiegazione, ma poteva avere una sua chiarificazione nel concetto di “identità negativa”. Questo concetto partiva dalla constatazione che l’educazione è un fenomeno naturale, un oggetto di indagine complesso e indefinibile, negato all’interno delle specificità di ricerca dei saperi di più consolidata tradizione epistemologica.
La pedagogia, secondo questa linea interpretativa, non ha potuto costituirsi autonomamente per la difficoltà di controllo scientifico nel proprio ambito disciplinare dell’oggetto-educazione e, quindi, è stata espropriata da saperi di più consolidata struttura epistemologica quali, ad esempio, la psicologia e la sociologia, ma anche la filosofi a e la politica. L’identità negativa del sapere pedagogico sembrava una chiave di lettura soddisfacente per comprendere il significato della pedagogia come sapere autonomo (Spadafora, 1992, 2001).
A distanza di tempo, ritengo che il problema si proponga in modo più complesso, anche se quei presupposti culturali rimangono. Per definire un quadro più articolato delle tematiche dell’identità del sapere pedagogico potrebbero essere prese in considerazione tre caratteristiche specifiche per approfondire i problemi epistemologici della pedagogia: l’espropriazione del sapere pedagogico da parte di altri contesti disciplinari, il concetto di applicazione della teoria pedagogica agli eventi dell’esperienza, la struttura antinomico-ambivalente della pedagogia in relazione alle condotte di vita.
Per quanto concerne il tema dell’espropriazione, la posizione di Giovanni Gentile e di Antonio Banfi è esemplare. I due pensatori, infatti, sia pure delimitati in un contesto tipicamente italiano, hanno focalizzato due istanze antitetiche della pedagogia come scienza: quella di risolvere la pedagogia nella filosofia (Gentile, 1921, 1927, 1932; Cavallera, 1988) o quella di definire la pedagogia come un sapere trascendentale (Banfi , 1986) in grado di conferire un significato pedagogico agli ambiti della realtà a cui fa riferimento.
La mossa teoretica di Gentile consiste nel considerare la pedagogia un “albero selvaggio”, una scienza indefinibile perché utilizzata in vari contesti tanto da diventare “res omnium, res nullius”, che non può avere collocazione né nell’ambito della psicologia, né nell’ambito dell’etica (è abbastanza noto il riferimento gentiliano al padre del ladro che insegna al figlio a rubare esprimendo una efficace azione educativa ma non, ovviamente, una azione eticamente da approvare) e, quindi, proprio per questo si “risolve” nella filosofia dello spirito (Spadafora, 2006a, 775-824; 2009, 13-37). In effetti, la tesi gentiliana della risoluzione della pedagogia nella filosofia rappresenta una chiara dimostrazione di come l’educazione sia stata per Gentile un momento di applicazione della filosofi a ai problemi della scuola e dell’educazione.
L’educazione, in effetti, è espressione della possibilità della filosofia attualistica di concretizzarsi nella realtà e questo atteggiamento dimostra, comunque, la particolarità del processo educativo che anche per Gentile non è una scienza come tutte le altre, ma è una scienza filosofica curvata verso la pratica.
In questo senso, la filosofia di Banfi esprime l’esigenza teoretica di un modello critico della pedagogia. Il razionalismo critico ha rappresentato, in un certo senso, una filosofia contraria all’attualismo con un percorso particolare tra fenomenologia e marxismo. Secondo il filosofo milanese, la pedagogia è un sapere che trova la sua forza nell’essere presente nei vari contesti pratici, politici, etici in cui si definisce e si sviluppa. Il “trascendentalismo” dell’educazione nella riflessione banfiana esprime l’esigenza di giustificare teoreticamente la presenza dell’educazione in tutti i contesti pratico-politici della realtà. L’educazione è un processo che regola il senso dei vari saperi che interagiscono con essa, ma è l’educazione stessa a porsi come l’elemento centrale, per così dire dominante. È l’educazione che dà una direzione di senso alla politica, è l’educazione che orienta la pratica umana e non viceversa (Banfi ,1986; cfr. come momenti signifi cativi della letteratura critica, Bertin, 1961; Chiodo-Scaramuzza, 2007).
Le mosse teoretiche sulla defi nizione dell’identità della pedagogia dei due filosofi sono evidenti: o il destino della pedagogia è la sua riduzione nella filosofia e, per analogia, agli altri contesti disciplinari o la pedagogia esprime una curvatura trascendentale che dà significato e nel contempo è autonoma rispetto agli altri contesti filosofici, etici, religiosi, politici, pratici. Il discorso pedagogico, quindi, secondo queste due impostazioni, presenterebbe la caratteristica di un inevitabile riduzionismo o di una difficilmente definibile tensione critico-trascendentale verso altri contesti disciplinari. Il fenomeno della espropriazione da parte di altri contesti disciplinari è, quindi, una caratteristica fondamentale del sapere pedagogico e, proprio per questo, sembrerebbe un dato della sua inevitabile destinazione originaria. La pedagogia come riflessione sull’educazione non può che tendere alla sua riduzione in altri contesti disciplinari o, al limite, ad una tensione critica che non configura una chiara delimitazione del suo ambito epistemologico.
Un altro aspetto significativo è dato dal concetto di applicazione. La pedagogia è un sapere che si applica nei contesti specifici. In questo senso l’esperienza ermeneutica teologica, filologica, filosofica e giuridica, in particolar modo come è stata definita e utilizzata nel classico rapporto tra legge e giurisprudenza, costituiscono un tema centrale da sviluppare (Ferraris, 1988; Bianco, 1998/2002). L’interpretazione è espressione di una trasformazione e diversificazione in altro genere del modello originario, una sua differente concretizzazione che produce eff etti significativamente o completamente diversi rispetto all’ipotesi originaria. In questo senso la Wirkungsgeschichte di gadameriana memoria può essere riletta come uno specifico momento di applicazione che traduce il modello originario nella trasformazione dello stesso nelle situazioni specifiche.
L’esperienza pragmatista e neopragmatista ha sviluppato programmi di ricerca che trovano il loro significato nell’applicazione specifica rispetto al mondo linguistico e alla problematicità dell’esperienza. Il pragmatismo classico, ad esempio, sia nel concetto di arco riflesso di William James e di John Dewey, sia nel concetto di “abduzione” di Peirce propone una “immanenza dell’azione” che tenta di superare la tradizionale dicotomia teoria-pratica (Di Cesare, 2007; Shook, 2000).
In questa prospettiva, un momento fondamentale per cogliere il significato del rapporto teoria-pratica è rappresentato dal concetto di scienze dell’educazione così come lo ha sviluppato John Dewey. Il testo The Sources of a Science of Education del 1929 del filosofo americano è un contributo esemplare per comprendere il problema (Dewey, 1929, 1-40). Quest’opera costituisce un presupposto significativo per definire il tema della fondazione scientifica del processo educativo e dà una sua interpretazione al tema dell’applicazione per definire l’identità del sapere pedagogico. Il filosofo americano si pone la domanda se può esistere una scienza dell’educazione – considerata come un insieme di procedimenti che determinano la possibilità di fondare una scienza – che possa indagare e controllare le complesse variabili dell’apprendimento scolastico e della formazione dell’individuo.
Egli sostiene che una scienza dell’educazione per potersi costituire deve essere formata da più “fonti”, e cioè da processi scientifici che si occupano dell’educazione dalla loro specifica prospettiva e che si trasformano nel momento in cui si applicano alla “situazione educativa” dell’apprendimento scolastico attraverso l’opera dell’insegnante, come avviene per il medico o per l’ingegnere nei rispettivi ambiti. La scientificità dell’educazione è, dunque, determinata dalla possibilità di applicazione di un approccio pluralista di vari saperi al contesto educativo, così come il medico applica le sue conoscenze di base alla situazione specifica dell’ammalato per la diagnosi e per l’eventuale terapia, o nello stesso modo in cui i calcoli dell’ingegnere sono applicati per costruire gli edifici con una appropriata organizzazione del lavoro. Secondo questa prospettiva, una scienza dell’educazione può essere compresa solo nell’ambito del rapporto tra il sapere e la sua applicazione, tanto è vero che l’atto educativo è considerato da Dewey “wider than science”, più vasto della stessa scienza. Alla fine di questo testo, il filosofo americano considera l’educazione un “circolo senza fine o una spirale”, un’attività che “include la scienza dentro se stessa” proprio perché l’educazione nella sua applicazione alla concretezza storica guida l’azione della scienza nella società (Ibidem, 39-40).
L’applicazione – e in questo caso quella delle scienze alle situazioni educative – ci aiuta a comprendere come la pedagogia risulti connessa a questa tematica. La pedagogia è una tensione verso il concreto, determinata dalla situazione in cui si sviluppa la vita umana; e in questo tendere verso il concreto si verifica una trasformazione evidente dei processi scientifici che esprimono proprio nell’applicazione caratteristiche diverse rispetto ai processi originari.
Le scienze dell’educazione dimostrano che la scientificità “al plurale” dell’educazione, nel momento in cui si applica, diventa una scienza dell’educazione ovvero, con termine meno anglosassone, una pedagogia. È, in altri termini, l’applicazione di chi concretamente agisce educativamente in modo consapevole – l’insegnante, l’educatore o il tecnico di trasmissione dei messaggi mediatici – o inconsapevolmente, il genitore o la persona nei suoi atti quotidiani, che determina la definizione del sapere pedagogico (Corsi-Stramaglia, 2009).
Inoltre vi è da rilevare come l’applicazione legata alla possibile scientificità della pedagogia risulti una chiave di lettura fondamentale del problema dell’identità del sapere pedagogico. Infatti, nell’esempio deweyano è abbastanza chiaramente rappresentato il significato centrale della pratica applicativa rispetto alla ricerca teorica. Non si tratta né di una conferma al modello teorico dell’ipotesi scientifica, né di una verifica o di una “falsificazione”, per dirla con Popper, di quelle che sono state le ipotesi scientifiche. L’applicazione, come categoria specifica del sapere pedagogico, dimostra quella che era una intuizione di Durkheim, e cioè che la pedagogia è una “teoria-pratica” (Durkheim, 1922), ma lo è nel senso che la pratica implica già il modello teorico e scientifico ed è rilevabile negli attori del processo educativo: nel genitore, nell’insegnante, nell’educatore, in qualunque strumento tecnologico della comunicazione che esprime un processo educativo-trasmissivo di conoscenze e di valori.
La terza caratteristica da analizzare per porre ulteriori riflessioni sul problema dell’identità del sapere pedagogico è l’antinomicità ambivalente della pedagogia tra i mezzi e i fini, un vero ossimoro pedagogico. Ogni atto umano produce conseguenze etiche, cambiamenti pratici, direttamente o indirettamente trasformazioni sociali, ma sempre una tensione verso valori da realizzare. L’educazione come atto politico ed educativo è espressa emblematicamente dal concetto di prassi, così come è evidenziato nelle marxiane Tesi su Feuerbach (1845), ma come è soprattutto evidenziato dall’analisi gramsciana che rappresenta la definizione filosofica del significato dell’ideologia. Nel breve ma fondamentale scritto sulle Tesi, Marx ricorda che il rapporto soggetto-oggetto non è basato sulla separazione dei due termini, ma sul concetto di prassi, per cui la tradizionale concezione della verità come adaequatio della cosa all’intelletto è superata in virtù del concetto di prassi (prima e seconda Tesi) come “attività pratico-critica” che può trasformare la realtà sociale. Nella terza Tesi, Marx analizza il rapporto uomo-ambiente in una prospettiva educativa. Non è l’ambiente educatore che educa l’uomo ma è l’uomo che attraverso il suo concetto di prassi educa l’ambiente. L’educazione, per non essere condizionata da una concezione illuministica che impone i suoi valori dall’alto, deve costruire il senso dei suoi valori attraverso l’atto politico pratico. E infatti, com’è noto, nell’undicesima Tesi Marx afferma con chiarezza che la filosofia deve trasformare il mondo e non interpretarlo (Marx, 1888). Le categorie della interpretazione e della trasformazione, così come emergono nella riflessione delle Tesi e come sono state percepite e sviluppate nelle varie interpretazioni dell’idealismo e del marxismo, rappresentano una chiave di lettura fondamentale del processo educativo, in quanto l’attività pratico-critica, che è fondamentalmente attività politica, esprime i valori negativi e positivi dell’educazione.
La filosofia si dissolve nell’atto politico e l’attività umana si sviluppa attraverso due poli, il condizionamento sociale e la possibile emancipazione. Questa tensione ambivalente, positiva e negativa dell’educazione, all’interno della politica è stata definita da una vastissima letteratura che ha approfondito due categorie che danno una idea di questa antinomia ambivalente: l’ideologia e l’utopia, l’indottrinamento e l’emancipazione. L’ideologia e l’utopia sono espressione della struttura antinomico-ambivalente della pedagogia, come già intuì Gramsci nell’analizzare il concetto di egemonia. Ovviamente l’ideologia e l’utopia sono considerate all’interno di una tradizione di pensiero marxiana e marxista. L’ideologia è da considerare un disvalore, un valore negativo che determina una “falsa coscienza”, una visione “arbitraria” della realtà nelle singole persone e nella collettività e, quindi, ha bisogno dell’educazione per potersi definire e affermare. Nello stesso tempo, l’ideologia è da considerare anche una “visione del mondo”, una semplice concezione della realtà. Allo stesso modo l’utopia può essere espressione di una dimensione negativa, un luogo che non esiste e che, quindi, non può essere raggiunto o un luogo che può determinare una “tensione progettuale” verso il futuro e, quindi, offrire una possibilità di trasformazione alla soggettività che si lega al suo processo politico e culturale. Sottolinea Paul Ricœur, sviluppando l’intuizione di Mannheim, che queste due categorie non possono essere considerate in modo separato, ma entrambe esprimono una “polarità” negativa e una positiva (Ricœur, 1994). È abbastanza evidente che i temi dell’ideologia e della politica sono stati trattati all’interno della riflessione politica, ma il problema della prassi come momento di superamento della scissione kantiana mezzi-fini diventa centrale per comprendere il rapporto dell’attività umana rispetto ai valori, alle regole, alle leggi che caratterizzano la complessità della vita umana.
Ecco perché nel rapporto attività umana-etica, il cuore della questione è lo sviluppo dell’attività umana che si lega strettamente al processo educativo e di formazione e può essere antinomico-ambivalente; antinomico nel senso che strutturalmente l’educazione nell’attività umana rimane permanentemente tra i valori del limite e della libertà, del dovere essere e dell’essere, ambivalente nel senso che l’educazione può essere sia conformativa, sia emancipativa (in questo senso le categorie dell’interpretazione e della trasformazione marxiane ritornano e sono da riproporre nel contesto culturale contemporaneo).
La pedagogia come riflessione sull’educazione assume, quindi, una struttura antinomica in cui i valori del limite e della libertà non possono essere superati o eliminati (e questo è stato chiaramente evidenziato nella letteratura pedagogica contemporanea di matrice herbartiana e neokantiana: Cambi, 1982, 281-285; 1989; Chiosso, 1983; 1988, 41-54; D’Arcangeli, 2000; Volpicelli, 2003, 2004). È altrettanto vero, però, che il processo mezzi-fini determina una struttura ambivalente del sapere pedagogico oscillante tra la negatività e la positività, tra l’indottrinamento e l’emancipazione, tra il limite da superare e la tensione per il suo superamento almeno rispetto agli effetti che produce sulla formazione delle persone.
L’espropriazione, l’applicazione, l’antinomia-ambivalenza rappresentano le caratteristiche più ricorrenti del sapere pedagogico, inteso come teoria che analizza e orienta i processi pratici educativi e formativi delle persone.
Queste tre figure evidenziano come la pedagogia esprima una tensione critica verso i saperi (l’espropriazione), verso la pratica (l’applicazione), verso i valori negativi e positivi (l’antinomia ambivalente) senza mai definirsi in modo completo. Anzi, la caratteristica fondamentale del sapere pedagogico è proprio la complessità della sua definizione, che rimane una questione aperta (ritengo che questa definizione sia più corretta rispetto al discorso che alcuni anni fa era proposto da studiosi italiani come Giovanni Maria Bertin, per esempio, con il termine “ipercomplessità”).
Ma allora, questo esercizio critico epistemologico, per rispondere all’ipotesi introduttiva di queste pagine, può chiarire il senso della pedagogia o rimane uno sterile esercizio di autocomprensione che, in effetti, è lontano da quelli che sono i problemi educativi reali delle persone che nelle varie età della vita si formano consapevolmente o inconsapevolmente nei luoghi dell’educazione, nella famiglia, o nelle “famiglie”, nella scuola o, meglio, nelle scuole, nella società, o nelle varie dimensioni sociali e formative del pianeta?
È indubbio che la riflessione epistemologica sul sapere pedagogico non possa avere una sua definizione se non è strettamente connessa alle problematiche della formazione delle persone per approfondire il nesso cruciale tra formazione umana e sviluppo sociale della democrazia.
A mio avviso, la riflessione epistemologica è fondamentale per analizzare adeguatamente la fondazione del sapere pedagogico, soprattutto nella chiarificazione del rapporto persona-formazione-democrazia, che rimane il luogo centrale della riflessione pedagogica. L’autocomprensione del sapere pedagogico non è la definizione di una “struttura senza soggetto”, ma risulta essere un “congegno” regolatore che ci aiuta a comprendere le dimensioni concrete e applicative della pedagogia. In base alla defi nizione delle tre categorie da tenere in considerazione, infatti, l’espropriazione, l’applicazione e la struttura antinomico-ambivalente, una pedagogia, che in questo senso può essere definita critica, non può che analizzare una specifica soggettività della persona che possa tendere ad un equilibrio tra l’intenzionalità e l’evento, tra il limite e la libertà. Parlare dell’espropriazione significa evidenziare come la pedagogia non possa fare a meno del dialogo interdisciplinare con le altre scienze umane e scienze fisico-naturali e tecnologiche.
Non si potrebbe analizzare il processo formativo delle persone nella loro diversità se non ci si ricollegasse, ad esempio, alle neuroscienze, alla psicoanalisi, alla psichiatria, per comprendere l’unicità e particolarità di ogni individuo. Non si potrebbe definire l’azione formativa umana all’interno di specifiche situazioni educative se non ci si interrogasse radicalmente sul significato dell’applicazione nella pratica quotidiana. Non si potrebbe cogliere, infine, il senso delle relazioni educative tra le persone se non ci si interrogasse fino in fondo sulla problematicità della formazione umana oscillante tra i processi di conformazione e di emancipazione, tra il limite e la libertà, tra la disciplina e l’autodeterminazione della soggettività.
In effetti, senza una profonda riflessione sul tema dell’identità del sapere pedagogico, difficilmente si potrebbero pensare i processi formativi nelle situazioni specifiche, nella famiglia, nella scuola, nella società, nelle complesse relazioni con il mondo mediatico della globalizzazione.
Ripensare la soggettività della persona nella sua costante tensione verso il bene comune, mettendo in discussione gli aspetti degenerativi dell’antagonismo competitivo che può generare la violenza dell’homo homini lupus, significa analizzare il rapporto tra la persona e il processo democratico. In questo senso, proporre ulteriori riflessioni sull’identità del sapere pedagogico potrebbe voler dire considerare la pedagogia nella sua complessità per metterla al servizio delle persone nella loro problematicità, ma anche nella loro meravigliosa potenzialità verso l’emancipazione, una libertà autentica che consideri il limite e la regola come un momento di interiorizzazione fondamentale per un’azione consapevole e non di acritica accettazione.
Una epistemologia pedagogica per il processo formativo delle persone potrebbe costituire l’antidoto ad ogni possibile improvvisazione e ad ogni angusto praticismo e spontaneismo ingenuo e, soprattutto, potrebbe essere la premessa per una fondazione di una pedagogia critica che naturalmente non può che analizzare i processi formativi della persona per la costruzione della democrazia. Una pedagogia critica per la democrazia deve rilanciare l’analisi della problematica pedagogica per progettare uno sviluppo significativo dell’educazione per la costruzione di un’autentica democrazia nel mondo globalizzato del XXI secolo.
Per approfondimenti: https://riviste.unimc.it/index.php/es_s/article/viewFile/45/16